Meno tutela, più centralismo (non sono coincidenze).

Il petrolchimico di Porto Torres dalla necropoli di Su Crucifissu Mannu

Il petrolchimico di Porto Torres dalla necropoli di Su Crucifissu Mannu

Una recente riforma, firmata dal ministro Franceschini (D.P.C.M. 171/2014) e diventata operativa da pochi mesi, ha introdotto diversi elementi di ‘novità’ nell’organizzazione del MiBACT e nel relativo settore museale. Non mi soffermerò qua – ma non mancherà l’occasione – su una serie di aspetti specifici di organizzazione e anche di terminologia.
La riforma è stata accompagnata da molta enfasi, tipica della propaganda politica di stampo renziano
(di cui paradossalmente Franceschini rappresenta, per alcuni analisti, persino fattore di moderazione: ma l’allineamento ideologico con la ‘Buona Scuola’ è stato da poco ribadito dal ministro). Le discussioni si sono accese, in parte sicuramente condizionate dalle posizioni rispetto al ‘Palazzo’. Complessivamente ne ricavo l’impressione di un intervento di razionalizzazione di un sistema in crisi e dell’indebolimento della tutela dei luoghi, poiché tali mi sembrano le sue misure rispetto alle sfide poste da reticolarità e densità del patrimonio stesso, soprattutto nel meridione d’Italia e in Sardegna.

E’ utile leggere il provvedimento dentro la storia attuale del sistema italiano della tutela, che attraversa uno dei momenti più critici, drammatici e anche concettualmente interessanti: perché tale sistema, figlio evoluto di una composita modernità e inaugurato nel 1975, è al tramonto. Il suo modello centralista non regge la pressione crescente sul paesaggio e le nuove esigenze di governo dello stesso, e in questi decenni all’aumento vertiginoso dei beni culturali è corrisposto nel lungo periodo il taglio sistematico dei fondi disponibili. La spoliazione causata dal degrado progressivo degli interventi sul ‘pubblico’ operati dalla politica si è rapportata al succitato aumento, di natura relativa ma potentissimo: una sorta di rivoluzione  determinata da un cambiamento radicale di percezione e coscienza, grazie alla crescita della discussione scientifica, alla scolarizzazione di massa ed ai nuovi consumi innescatisi nel sistema Italia dagli anni Sessanta del Novecento. Qual’è stato però uno dei problemi ‘finanziari’ più delicati di tale relazione? Per ogni bene meno fondi di quando i beni (e i soggetti) erano ‘pochi’, e la necessità di sempre più fondi anche solo per mantenere un rapporto analogo a quello precedente gli anni Sessanta. E la classe politica italiana non ha voluto, nè saputo,  risolvere tale tensione. Ha pianto continuamente sul debito pubblico – naturalmente alimentandolo dove serviva alle sue clientele. In realtà non  ha avuto la cultura necessaria. L’insufficienza culturale e dei finanziamenti non potevano che avere effetti  devastanti, mentre le pochissime assunzioni, dopo il ‘pieno’  degli anni Settanta  e soprattutto il mancato turn-over, hanno progressivamente causato la grave perdita di memorie lavorative e importanti pratiche cognitive, con una crescente crisi del sistema.

Sarebbe però errato credere che la soluzione stia nell’aumentare i fondi (ciò che comunque sarebbe pur utile): non tanto e non solo perché le tendenze attuali non sembrano far prevedere tale azione, ma soprattutto per ragioni di struttura e modello territoriale. Siccome l’impianto centralista non è stato in grado di crescere quanto sono cresciuti la percezione e le esigenze della tutela e della valorizzazione, l’unica possibilità sarebbe quella di costruire un sistema radicalmente nuovo e adeguato a tali accresciute espressioni di identità, e di necessità conservativa: un sistema diffuso, radicato nei luoghi e governato da essi. Oppure resta la via della razionalizzazione, dei tagli e  delle privatizzazioni, corroborata da un uso spregiudicato della gratuità tramite il volontariato.

La riforma Franceschini è dentro questo secondo orizzonte, parte oggettivamente dal presupposto di non affrontare nè il dato degli scarsi finanziamenti al sistema, nè soprattutto l’aspetto reticolare del patrimonio e le esigenze che esso pone. Ecco perciò nuovi tagli, razionalizzazioni, eliminazione di uffici, costruzione di poli museali a più livelli gerarchici coinvolgendo direttori-manager staccati dal territorio: obiettive esigenze di modernizzazione vengono tradotte nell’emulazione passiva di modelli museali di successo che sono però radicati in realtà di patrimonio culturale profondamente diverse. La separazione, di fatto, dei musei statali dagli Uffici della tutela interrompe la rete della tutela stessa, la relazione fra operatori, conservazione del patrimonio, cura e presentazione territorializzata dello stesso.

In tale contesto è di rilievo, e costituisce per noi un grave danno, l’indebolimento di un territorio come quello sardo, banco di prova significativo per l’elevato peso dei due fattori prima indicati di densità patrimoniale e natura reticolare. L’isola registra da poco, grazie al ‘Decreto’, l’accorpamento delle due Soprintendenze Archeologiche in una sola, con sede a Cagliari: indebolimento evidente per la compattazione in una Soprintendenza unica di un patrimonio, diffuso, di ventimila monumenti archeologici.

Vi è poi la costituzione del Polo Museale Regionale, che raggrupperà, in modo ancora non evidente, i musei statali presenti nell’isola (intanto, in relazione a quanto detto prima e in attesa che il nuovo Polo prenda forma, risulta subito in serio affanno la rete museale archeologica statale lontana da Cagliari, a partire dal Museo Sanna di Sassari). Questo Polo Regionale dei Musei non è ovviamente da confondere con il Sistema Regionale dei Musei afferente alla Regione Autonoma ed i ‘poli’ da esso presupposti, con il quale, e la sua rete dei Musei Civici – compresi anche i cosiddetti ‘Parchi Archeologici’ –   dovrà necessariamente interfacciarsi: una situazione complessa, densa di contraddizioni e destinata a presentarne. Soprattutto perchè, al di là delle competenze, il sistema museale della Sardegna esprime sempre tendenzialmente i luoghi (pur scontando vizi di origine municipalisti e non arrivando con pienezza, ad esempio, al modello dell’ecomuseo e a dinamiche funzionali legate ad un corretto sviluppo locale integrato).

Alcuni punti ‘caldi’ dei prossimi mesi, allora: il Sistema Museale regionale sarà considerato un’appendice – magari con qualche verniciatura sovranista – del Polo Museale Regionale dello Stato, oppure i musei civici agiranno come luoghi identitari ed elementi di una valorizzazione più ampia, di natura e origine diversa quello statale? Quale sarà la relazione con quelle aree archeologiche, che appartengono al patrimonio dello Stato italiano ma fanno parte del sistema regionale dei musei, basate sui comuni, e presentano diffuse espressioni – da migliorare anche in profondità, ma esistenti – di gestione comunale? Sono aree significative: pensate che nei dati monitorati dall’Ufficio Statistica del Ministero per il 2014, ad esempio nella tavola 7 , non completamente esaustivi ma di grande interesse e indicativi, su oltre cinquecento musei/aree archeologiche dieci sono gestite da soggetti non statali, e di esse ben cinque sono sarde (Abbasanta-Nuraghe Losa, Barumini-Su Nuraxi, Cabras-Tharros, Cagliari-Grotta della Vipera, Pula-Nora, tutte a gestione comunale). Insomma, problematichc da affrontare, anticipate da uno dei luoghi più espressivi di tali problematiche, ovvero Mont’e Prama, come già indicato dalla questione della divisione delle statue, che ha espresso una dicotomia non risolta positivamente fra Museo Statale (Cagliari) e Museo Civico (Cabras).

In questa crisi di sistema assai profonda, la rete dei luoghi assieme a quella dei professionisti della cultura e del paesaggio, che godono comunque di accresciuti strumenti e riconoscimenti giuridici (mi riferisco, da ultimo, alla legge 110/2014 e alla ratifica della Convenzione della Valletta), è chiamata ad un compito più intenso e a una sfida importante, a partire dagli strumenti della pianificazione urbanistica e della gestione diretta dei siti. Spero che almeno in parte si possa riuscire a trasformare il calo della tutela dello Stato sul patrimonio della Sardegna, associato all’aumento del controllo politico centrale e centralista sul territorio, in un’accresciuta presenza diretta nei luoghi, di fatto alternativa. E’ lì che va costruita una nuova intelligenza complessiva.