Riforme museali e nuovi centralismi.

isre2Il particolare impegno messo dal Ministro Franceschini nelle politiche museali è un mutamento di rilievo (anche se, come vedremo fra poco, non riguarda solo i musei). Se pensiamo che poco meno di una ventina d’anni fa, alle origini della cosiddetta ‘devolution’ – vedi le diverse versioni della ‘Bassanini’ – ci fu persino l’ipotesi di trasformare i musei nazionali/statali in musei comunali, ci rendiamo conto che il cambiamento formalizzato dal Decreto n. 171 del 29 agosto 2014  – che sta per completarsi nella bozza di riorganizzazione del Ministero attualmente in discussione – è una radicale inversione di rotta. Tramite tale decreto viene ridisegnato il panorama museale istituendo (art. 34) i ‘Poli Museali Regionali’: tali poli comprendono i Musei Statali (non quelli Civici, organizzati in circuiti regionali, decisamente superiori rispetto a quelli statali).

Dal testo della legge emerge l’idea di un Ministero a capo della gestione dell’archeologia del territorio, compresa la valorizzazione, ciò che non mancherà di creare una forte influenza e preoccupazione nel territorio, a partire dalla rete relativamente nuova del sistema museale rappresentata dai musei civici.     Il passaggio dal sistema moderno, di matrice ottocentesca, del museo pubblico e dei ‘beni culturali’ come narrazione dello Stato nazionale direttamente governata da suoi funzionari, a quello contemporaneo del museo come narrazione dei luoghi e dei territori, prende la scorciatoia delle ‘eccellenze’.

Ma non si tratta di un fatto solamente museale: con il decreto 171/2014 scompare, nella topografia del MiBACT, la figura del Soprintendente Regionale (sostituito da un più ‘intermedio’ segretariato), appare quella del Direttore del Polo Museale Regionale: la relazione fra questi due fatti è eloquente, e acquista senso il maggior rilievo dato agli istituti connessi alla valorizzazione rispetto a quelli connessi alla tutela: per certi versi, sono proprio i Poli (organi periferici del Ministero, li definisce non a caso l’art. 31 del decreto stesso) le nuove ‘Soprintendenze’….

La valorizzazione – come è noto, sensibilità e letture della stessa sono diverse, da chi la basa sul pieno valore di godimento culturale del bene a chi vede il punto essenzialmente mercantilistico – è, per impostare dentro e tramite il patrimonio culturale serie politiche di conoscenza, un aspetto centrale in grado di costruire effetti economici importanti. Se condotta con sensibilità culturale e visione strategica, contiene in sé la consapevolezza del ruolo della conservazione, elemento essenziale sia per la salute del bene culturale e paesaggistico sia (e quindi) per una lunga durata di utilizzo in termini di fruizione.

Nella lettura propria del governo e del ministro sembra intendersi soprattutto come valorizzazione delle ‘eccellenze’: un fatto selettivo nel quale riemerge, in forme nuove, il concetto di rarità e pregio, declinato in attrattività consumistica, e si rischia concretamente di mettere in secondo piano la rete e la tutela diffusa. Peraltro il settore della tutela necessita di una riforma profonda, inevitabile per la crisi definitiva del vecchio modello novecentesco: riforma che qualcuno sta facendo, purtroppo senza la prevalenza dell’idea del ‘pubblico’ né della sua evoluzione fisica e concettuale verso il concetto di bene comune, laddove il pensiero e la politica progressista sono praticamente assenti: o spesso, quasi paradossalmente presenti  con ruolo conservatore con la difesa di un modello superato, inadeguato, di stampo vetero-statalista. Le uniche possibili novità, e ventate sociali, dobbiamo aspettarcele soprattutto dal nuovo soggetto storico dei lavoratori cognitivi indipendenti, da poco riconosciuti nella legge 110/2014.

Un altro aspetto da notare per cogliere il contesto, è che la modernizzazione di Franceschini (e del governo Renzi), se si configura come un modello per certi versi meno statalista dei precedenti, mostra un aumento assai specifico, e forte, di centralismo. Tramite l’indebolimento del sistema delle soprintendenze (non parlo della loro unificazione per funzioni, che non vedo di per sé negativa) e la sua recente subordinazione alla rete dei Prefetti si garantisce al potere esecutivo una maggiore capacità di controllo, azione e, nel caso servisse, di svuotamento della tutela rispetto a obiettivi e opere definite strategiche dalla politica.

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Le osservazioni possibili ‘dalla Sardegna’ credo siano utili anche al di là dell’isola per via delle caratteristiche della rete sarda museale e più in genere della natura, qualitativa e qualitativa, della dialettica Stato/territori. Il neo-centralismo prima indicato si predispone ad una presa di possesso di un reticolo culturale di musei ed aree di pertinenza regionale, nucleo forte – per quanto ancora con limitato potere gestionale – di uno sviluppo sostenibile della Sardegna. Si pensi che il rapporto fra musei/aree statali e musei/aree regionali è di circa 1:20! Un circuito, di competenza della Regione Autonoma, particolarmente denso, con a capo lo storico e prestigioso Istituto Superiore Regionale Etnografico.         Ma la rete è politicamente debole, e la nostra classe politica ha gravi responsabilità.

Che l’idea dell’autonomia della Sardegna sia bassa non è solo una realtà regionale e un punto di vista  statale, ma appare con linearità e chiarezza nello stesso apparato legislativo qua discusso, che conferma come la Sardegna sia una regione periferica neppure autonoma: basta vedere il comma 3 dell’art. 34, dove si dice che i ‘poli museali regionali’ sono non più di 17 e operano in una o più Regioni, ad esclusione delle Regioni Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta!

I Poli Museali dello Stato, dice il decreto,  “Assicurano sul territorio l’espletamento del servizio pubblico di fruizione e di valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo Stato o allo Stato comunque affidati in gestione”(…) “provvedendo a definire strategie e obiettivi comuni di valorizzazione, in rapporto all’ambito territoriale di competenza, e promuovono l’integrazione dei percorsi culturali di fruizione e, in raccordo con il segretario regionale, dei conseguenti itinerari turistico-culturali.” Se pensiamo che i poli museali della Regione Sardegna, delineati nel 2006, hanno avuto diverse definizioni e modifiche, che la legge appena citata definisce fra i 17 poli museali il ‘Polo Museale della Sardegna’, che si auspica la collaborazione fra i due sistemi e che si prevede la creazione di altri poli museali, la confusione possibile sembra molta e piuttosto polare, e probabilmente nasconde un tentativo inedito di direzione da parte del potere statale a direzione politica.

Non sappiamo come ‘risponderà’ la Regione nominalmente Autonoma a questa sfida. Almeno per l’obiettivo minimo di non indebolire le attuali competenze del rilevante circuito regionale e di agire in modo che esse non vengano assorbite – pur auspicando ottime e virtuose azioni comuni – dalla pianificazione statale. Servirebbero nuove politiche e strategie, finora assenti in modo desolante, o in moto con una lentezza esasperante persino maggiore di quella della linea ferroviaria dell’isola (nuovo Pendolino compreso).

La risposta possibile sarebbe quella di riprendere le fila del sistema museale regionale – che nella sua ‘testa’ (l’ISRE) e nel tessuto indipendente dei lavoratori cognitivi dà segnali interessanti di vitalità – per cogliere le nuove possibilità date dalla valorizzazione più generale del territorio costituito dai luoghi e dai relativi beni comuni. Come pure sarebbe importante che ogni incremento del bacino museale e delle aree archeologiche attivate si basasse su di una valorizzazione reale dei luoghi del territorio e del lavoro correttamente qualificato (evitando un uso sostitutivo, invece che sussidiario, del volontariato, come traspare spesso nelle attuali politiche ministeriali e rischio costante, anche in Sardegna, tramite piccole e grandi ‘Fondazioni’ o società in house di vario genere e specie).

Non sappiamo se e quando avverrà un reale passaggio di competenze dallo Stato italiano alla Sardegna sul patrimonio dei beni culturali, che auspico (e per il quale ho già combattuto vent’anni fa in una vertenza capeggiata da Giovanni Lilliu, che vedeva persino schierati i sindacati della Sardegna: comunque un trasferimento che riproducesse ottiche centralistiche non mi piacerebbe e non cambierebbe più di tanto la situazione). Ma sarebbe importante, anche nell’attuale perimetro dello Stato italiano, che la Sardegna, proprio in virtù dei parametri assai alti (per diversi aspetti i più alti a livello nazionale in musei e aree archeologiche e monumentali), suscitasse e partecipasse ad un movimento di animazione dei circuiti museali regionali (non statali) per contrastare ed evitare il loro assorbimento in un’ottica neo-centralistica e tutta governativa.

Conviene in ogni caso stare collaborativi ma a guardia alta, operando da subito per spostare in ottica territorialista gli assetti centralisti e le politiche dei beni culturali, ed evitare lo scippo più pesante per il nostro patrimonio.